Sciogliere i lacci - Predicazione di Domenica 7 Novembre 2021
1 E Mosè fu pastore del gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian: e guidò il gregge oltre il deserto e giunse al monte di Dio, l’Oreb. 2 E gli apparve un messaggero di Yod/Dio in fiamma di fuoco da mezzo il roveto. E vide, ed ecco: il roveto bruciava nel fuoco e il roveto non veniva consumato. 3 E disse Mosè: «Ora mi sposterò e vedrò questa grande visione: perché non brucia il roveto?». 4 E vide Yod/Dio che quegli si era spostato per vedere e lo chiamò da mezzo il roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Ed (egli) disse: «Eccomi!». 5 E disse: «Non avvicinarti qui: sciogli da te i sandali ai tuoi piedi, perché il luogo su cui tu stai, esso è suolo separato» (Esodo 3:1-5 – Traduzione di Erri De Luca)
Ruth: Ci ricorda Erri de Luca che il Dio della bibbia ebraica «ama i pastori (…): Giacobbe, Mosè, Davide, Amos, guidano greggi. Mosè diventa mandriano dopo aver ucciso un egiziano, dopo essere fuggito lontano accettando di badare alle bestie di Ietro, che diventerà suo suocero. In uno di questi viaggi in cerca di pascolo, Mosè si inoltra nel deserto verso una montagna: l’Oreb, detto anche Sinai»[1]. Leggendo questo passo, rimango colpita dal fatto che il racconto che abbiamo ascoltato, altro non è che l’anticipazione, sotto forma di metafora, di ciò che Mosè sarà poi chiamato a fare con il popolo d’Israele: condurlo, come dice il testo, oltre il deserto, sino all’incontro con il Dio delle liberazioni. Così come infatti il gregge non appartiene a Mosè, ma al suocero Ietro, anche il popolo di cui Mosè è parte non gli appartiene, poiché appartiene, in realtà, a Dio: Mosè, del resto, è figura dell’abbandono di ogni pretesa di appartenenza, è colui che riceverà da Dio la vocazione a varcare i confini.
Ecco che però, all’improvviso, in questo attraversamento di luoghi e di frontiere, a Mosè capita di imbattersi nella sorpresa di un incontro: che cosa vedi tu, Ale, nell’immagine di questo roveto che arde senza tuttavia essere consumato dal fuoco?
Ale: Per risponderti, Ruth, prenderei le mosse, ancora una volta, da Erri de Luca, che ci dice: «[Mosè] si sposta intorno a un cespuglio di spine per capirne il mistero. Sené è il nome ebraico, una pianta che esiste solo qui, in questi versi del terzo capitolo del libro dell’Esodo (…) Mosè intende che quello è il cardine del segreto (…) e quando dice a se stesso: “Perché non brucia il cespuglio?”, usa la parola ebraica madduà, “perché”, che ha il medesimo valore numerico di hassené, il cespuglio. La coincidenza, mai accidentale nella scrittura sacra, mostra che per Mosè il cespuglio è il perché»[2]. Partendo da queste considerazioni, vorrei proseguire concentrandomi su un aspetto che considero estremamente significativo: il cespuglio sarà il luogo in mezzo al quale Dio, rivolgendosi a Mosè, si manifesterà. Dio, quindi, in un certo qual modo “emerge” dal cuore stesso del cespuglio e quindi, come ci ha spiegato molto bene Erri de Luca, dal cuore stesso della domanda: il Dio biblico, infatti, non è, come spesso si è insistito, un Dio della risposta, ma un Dio della domanda, a cui ci si può avvicinare soltanto interrogando e interrogandosi. Infatti non è possibile vantare la presunzione di possedere una risposta che permetta di identificare senza riserve quel volto che il Dio d’Israele, invece, non mostra mai.
E questo proprio perché, in verità, il senso più profondo della fede e della stessa vita risiede nell’andare sempre in cerca di questo volto ignoto, restando aperte, aperti all’imprevedibilità delle sue rivelazioni.
Tu invece, Ruth, che cosa vedi in questo cespuglio che, pur ardendo, non brucia? Che cosa ti colpisce dell’atteggiamento di Mosè in questa circostanza del tutto particolare?
Ruth: Visto che la domanda, nel nostro racconto, nasce nel cuore di Mosè di fronte a un cespuglio che, pur ardendo, non si consuma, credo che sia proprio la domanda ciò che, in noi, non deve mai estinguersi. Mosè, che si trova al limitare di un deserto, spazio ideale per dare ascolto alle domande del cuore, dà anche ascolto a quell’unica manifestazione di Dio che è la voce: una voce che lo chiama per nome, lo interpella. A questa vera e propria vocazione Mosè risponde con la propria disponibilità, con un “eccomi” che è già dichiarazione esplicita di una fiducia piena, incondizionata, data prima ancora di ascoltare ciò che quella voce gli domanderà. Eppure, in risposta a questa disponibilità senza riserve, Dio sembra frenare Mosè nel suo slancio, chiedendogli di non avvicinarsi più di quanto non abbia già fatto. Perché, secondo te?
Ale: In realtà Dio rallenta l’incedere di Mosè per dirgli qualcosa: gli chiede, difatti, di sciogliere da sé i legacci dei sandali che porta ai piedi. Questa richiesta mi piace provare a leggerla in due modi: per un verso, ancora una volta, Dio allude, prima di chiarirlo definitivamente, al compito che intende affidare a Mosè, che avrà a che vedere proprio con dei lacci estremamente difficili da sciogliere, quelli della schiavitù in cui il popolo d’Israele è tenuto prigioniero.
A questo proposito, si fa spesso riferimento all’Egitto come luogo dell’oppressione e si addebitano così agli egiziani tutte le responsabilità di questa prigionia. In verità, però, Israele manifesterà a più riprese, dopo la fuga dall’Egitto, il suo profondo malcontento, esprimendolo proprio a Mosè, al quale rinfaccerà la condizione raminga di popolo che vaga senza posa nell’arsura del deserto. Molti cominceranno a dire: «Non stavamo forse meglio in Egitto, là dove, pur schiavi, almeno avevamo da mangiare?». Le sicurezze che la prigionia, pur con tutte le sue privazioni, garantisce, finiamo spesso per preferirle al rischio che comporta vivere la libertà: ecco perché Israele, e noi con lui, dobbiamo liberarci da quei lacci, da quelle catene che, per il fatto di aver portato a lungo, fatichiamo a sciogliere, a spezzare, perché ormai rappresentano tutto ciò a cui ci sentiamo legati e che non siamo disposti a lasciarci alle spalle.
Il secondo significato che colgo in questa richiesta che Dio rivolge a Mosè di togliersi i sandali, lo associo al fatto che Mosè viene invitato a sentirsi a proprio agio in quella domanda che, prima di tutto, è la «casa di Dio», il luogo dove possiamo incontrarlo, soltanto nella misura in cui continuiamo a cercarlo, lasciando spazio alla Sua novità che ci interpella costantemente. E tu, Ruth? Che cosa credi che significhi la richiesta che Dio rivolge a Mosè di togliere i calzari prima di avvicinarsi?
Ruth: Io ravviso in questo gesto la necessità di spogliarci di tutti i nostri rivestimenti, di tutto quel sapere presunto che, anziché rivelarci il volto di Dio, finisce per occultarlo. Mosè, infatti, fino a questo momento non sa di trovarsi al cospetto di Dio: lo scoprirà più avanti.
Però accetta di spogliarsi delle proprie sicurezze e dà ascolto a quella voce che lo invita alla nudità: e sarà grazie a questa rinuncia che Dio si rivelerà nell’inatteso. Dalla nudità germoglia la possibilità della relazione, che nasce dal reciproco sentirsi stando l’uno di fronte all’altro: sentirsi con l’udito, certo, ma prima ancora con quei sensi che dobbiamo far riaffiorare, riportandoli allo scoperto, togliendone quel rivestimento che li imprigiona e li soffoca, privandoci di quella primitiva e fondamentale esperienza di relazione che è il contatto. Mosè è invitato da Dio a sentire la terra sotto i piedi: così prende avvio l’incontro tra loro, prima di ogni dialogo, prima che ad avvicinarli l’uno all’altro siano le parole scambiate in quel luogo solitario. Un luogo del tutto speciale: non trovi?
Ale: Certo, Ruth: così speciale che Dio afferma di averlo «messo da parte», di averlo «riservato», in un certo qual modo: questo, infatti, è il significato letterale del termine che, nelle nostre bibbie, troviamo tradotto con l’aggettivo «santo» o «sacro». Il suolo su cui Mosè si trova e sul quale, ora, è invitato a poggiare, nuda, la pianta dei piedi, più che un suolo sacro è un suolo che Dio ha messo da parte per riservarlo all’unica esperienza di santità, che è quella dell’incontro tra Lui, Lei, e noi donne e noi uomini.
In questa relazione che Dio vuole costruire con noi, e in questa soltanto, Dio si rivela, mostrando il suo volto sempre cangiante: l’incontro con noi, per il quale Lui ha riservato uno spazio d’intimità, è il luogo del Suo manifestarsi come Dio delle relazioni. Questo l’invito che ci viene rivolto perché di Dio possiamo essere capaci di accogliere, sempre, la novità.
Una cosa ancora però, Ruth, colpisce la mia attenzione: perché, secondo te, quando chiama Mosè, Dio pronuncia per due volte il suo nome?
Ruth: In effetti l’ho trovato anch’io piuttosto curioso e ho provato a rispondermi in questo modo: la prima volta Dio si rivolge al Mosè in fuga, quello stesso che ha abbandonato il popolo di cui è parte alla schiavitù in terra d’Egitto, quella schiavitù a cui, anche se ne è fuggito, i suoi sandali lo tengono ancora saldamente legato. La seconda volta, invece, Dio si rivolge a quel Mosè che nascerà dopo l’ascolto di questa chiamata e che, una volta slacciati da sé i sandali, come Dio gli chiede di fare facendo appello alla sua autonomia, aiuterà poi altre ed altri a spezzare le catene che li imprigionano. Anche in questo caso, saranno gli altri e le altre a doversi liberare: nessuno, infatti, si può sostituire a noi nel momento cruciale della scelta, che implica responsabilità: parola che viene dal verbo respondeo, rispondere, e che nasce, dunque, dalla capacità di ascolto. Mosè darà ascolto a quella voce che, chiamandolo per nome, gli affiderà l’annuncio della liberazione: e di questo annuncio Mosè, rispondendo col suo “eccomi”, sarà responsabile. Ma a liberarsi, poi, dovrà essere ogni donna, ogni uomo che, rispondendo a sua volta, dovrà dimostrarsi capace di slegare da sé i lacci delle proprie abitudini e convinzioni, per imparare ad ospitare quella domanda in cui noi e Dio abitiamo insieme.
[Rimini - Ruth Cayul & Alessandro Esposito
Domenica 7 Novembre 2021
[1] Tratto da: Erri de Luca, Nocciolo d’oliva, edizioni Terra & Cielo, Padova, 2002, cit. a pag. 75
[2] Tratto da: Erri de Luca, Nocciolo d’oliva, edizioni Terra & Cielo, Padova, 2002, cit. a pag. 76