Sermone domenica 6/09/2020 di Adelfia Sessa
Care sorelle e cari fratelli,
immaginate la situazione. Ci troviamo a Gerusalemme nella prima comunità di “quelli che seguivano la via”. Così si chiamavano i primi seguaci di Gesù (non si dicevano ancora cristiani). Erano in tanti. Tante persone si univano a loro ogni giorno. Mettevano in comune tutti i loro beni, quelli che li avevano con chi non ne aveva e mangiavano tutti insieme. Immaginate la confusione. I discepoli si occupavano di tutto: servivano a tavola e diffondevano il messaggio di Gesù. Questo l’antefatto del testo di oggi.
Il testo di Atti che abbiamo letto questa mattina, ci racconta l’elezione dei diaconi nella nascente comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Le vedove degli ellenisti vengono trascurate dagli altri membri della comunità, perché, dopo il loro soggiorno fuori della Palestina, appaiono diverse. Parlano la lingua greca anziché l’ebraico(o l’aramaico). Oppure parlano l’ebraico ma con un accento diverso. Così anche all’interno della prima chiesa cristiana c’è una differenza e una discriminazione tra membri di provenienza diversa. A questa situazione gli apostoli decidono di rimediare con l’elezione dei diaconi, tutti di origine ellenistica. Fin qui il testo. Ma rileggendolo ecco che alcuni spunti di riflessione ci vengono offerti. Io ve ne propongo tre, ma sicuramente voi ne troverete degli altri.
“In quei giorni, moltiplicandosi il numero dei discepoli, sorse un mormorio da parte degli ellenisti contro gli Ebrei” Sorprendente! Già più di 2000 anni fa. Nella chiesa primitiva, quella idealizzata, presa a modello da tutti i cristiani, un conflitto di lingue, di accenti, di culture! Gli ellenisti dicono che le vedove del loro gruppo si lamentano. Di che cosa? Di discriminazione linguistica.
Quelle donne avevano lasciato Gerusalemme insieme ai loro mariti partiti per la Grecia come lavoratori migranti perché a Gerusalemme non trovavano lavoro. *(a Gerusalemme al massimo 3 tipi di lavoro: Tempio, terra, pesca)
Evidentemente il ricongiungimento familiare esisteva già. La concezione ebraica della famiglia non permetteva il suo smembramento. Non sappiamo se queste donne siano rimaste vedove in Grecia e si siano trasferite dopo la morte dei loro mariti o se il decesso del coniuge sia avvenuto dopo il ritorno della famiglia a Gerusalemme. Il fatto è che queste donne vivono a Gerusalemme e parlano il Greco o parlano l’Ebraico (o l’aramaico) ma lo parlano male, con un accento che le fa riconoscere come straniere, estranee. E voi capite quanto può essere difficile per una persona in condizioni di bisogno, fare capire le proprie necessità esprimendole in una lingua che non è compresa da chi la deve aiutare. Da chi deve soddisfare queste necessità. Ma c’è di più. Queste donne, vissute magari in grandi città commerciali, crocevia di culture e lingue diverse (pensiamo a Corinto con i suoi 600.000 abitanti a paragone dei 10/15 mila di Gerusalemme) avranno trovato l’ambiente religioso e culturale di Gerusalemme un po’ angusto. Magari avevano dei modi più disinvolti di quelli delle donne di Gerusalemme e questo avrà creato delle discriminazioni, delle distanze…. Oppure, essendo straniere, non godevano di quella rete di relazioni e di protezione di cui godevano le altre vedove: non conoscevano nessuno e nessuno le conosceva. Insomma queste donne non trovano il loro posto nella loro nuova comunità. Eppure sono ebree (nel senso di giudeo-cristiane, in questo caso). Ci si aspetterebbe che tra correligionari le questioni di lingue, di accenti, di modi di vita o di relazioni abbiano meno importanza, passino in secondo piano. A cosa serve una fede comune se ci ferma a questi dettagli di lingue o di abitudini alimentari?
Ma queste donne sono diverse. E la differenza fa paura. La differenza mette in discussione l’altro. Lo interroga. Lo costringe a ripensare se stesso, il proprio modo di essere, il proprio modo di vivere e di relazionarsi. Qualche volta questo ripensamento lo migliora, lo fa crescere nella consapevolezza di sé e dell’altro. Ma qualche volta lo fa chiudere, ripiegare in sé stesso, nei propri valori e nelle proprie sicurezze. Arroccato nella propria identità.
Crisi seria dunque in quella nascente comunità giudeo-cristiana dove, a guardarvi da vicino, non si viveva veramente quella unanimità così tanto lodata e ammirata. La crisi sarà stata profonda se più di 2000 anni fa delle donne erano così esasperate da portare in piazza il dibattito. Come si risolverà la crisi?
Ecco la seconda riflessione. “I dodici, convocata la moltitudine dei discepoli”
Il gruppo dei dodici, una sorta di autorità collettiva, non affronta il conflitto ritirandosi in una camera di Consiglio, ma convocando un’assemblea a cui sottopone una possibile soluzione: operare una vera e propria divisione del lavoro. Da un lato c’è chi si occuperà dell’insegnamento, della predicazione, della cura spirituale della comunità e dall’altro lato c’è chi si occuperà, avendo la fiducia della comunità, della mensa dei poveri, dell’assistenza. La scelta delle persone questa volta, anziché tirare a sorte (v. elezione di Mattia) avviene democraticamente. Supponiamo per acclamazione, dato che la maggior parte di quei fratelli e di quelle sorelle non sapeva scrivere.
Si creano così due ambiti: la predicazione e la diaconia (il servizio del prossimo). Da quel conflitto nasce una nuova articolazione dei ministeri nella comunità. Non si trattava di risolvere un problema puramente organizzativo, si trattava di suddividere i compiti da svolgere, affidandoli a persone con precise qualità e di cui si aveva stima, senza per questo stilare classifiche di merito. La mensa dei poveri vale quanto la predicazione in pubblico, anche se sono azioni completamente diverse. Ma l’una rinvia all’altra. Da quel giorno, si potrebbe dire, annuncio e diaconia sono diventati inseparabili, anzi da prima ancora. Da quando Cristo, messosi il grembiule dello schiavo, servì i suoi discepoli trasmettendo loro un programma che ancora facciamo fatica a realizzare. L’unità tra la diaconia e la predicazione nasce già nel Cristo diacono. Ma qui, nella vicenda descritta in Atti, quello che colpisce è che da un evento polemico che avrebbe potuto facilmente sfasciare la nascente chiesa cristiana emerga invece una soluzione innovativa. Anche il modo in cui la soluzione viene trovata, coinvolgendo profondamente le parti in conflitto, chiarendo bene gli obiettivi da raggiungere, fa sì che si raggiunga una soluzione con soddisfazione di tutti. E la comunità trarrà da questa nuova impostazione del lavoro maggiore coesione e incisività. Guai se quel mormorio tra giudei ed ellenisti fosse stato ignorato, minimizzato, combattuto o censurato in nome della coesione della comunità. L’avere invece messo a fuoco il conflitto, l’avere avuto il coraggio di affrontarlo ha portato frutti abbondanti e positivi. La storia della Chiesa, del cristianesimo è anche storia infinita di conflitti ma la prospettiva cristiana ci aiuta a leggere le situazioni conflittuali in modo diverso. Cristo stesso ha scatenato dei conflitti. Lo ha fatto quando la sua pace rischiava di diventare pura conservazione di regole vuote di senso e fini a se stesse. L’Evangelo è uno spiazzamento continuo che genera nuove situazioni conflittuali perché Cristo non si lascia normalizzare, inscatolare, appiattire dentro una religione. Come mi piace spesso pensare e dire: Cristo non si lascia trasformare in un santino comodo per tutte le tasche e tutte le situazioni. Ecco allora che l’Evangelo rilancia, sempre e di nuovo, una situazione di disaccordo a partire dalla quale occorre cominciare a ragionare in vista di nuove soluzioni.
Certo a questo punto il rischio è che il confronto, il conflitto si trasformi in scontro aperto, lacerante, devastante. Il rischio è che non si riescano a controllare le proprie emozioni, le proprie passioni e invece di esaminare con calma e obiettività i problemi, per trovare nuove soluzioni che soddisfino le parti in causa, si voglia imporre a tutti i costi la propria soluzione e il proprio punto di vista. In questo senso la lezione che ci viene da Atti 6 è importante. Non è un caso che Paolo raccomandi ai credenti di stare attenti a non “divorarsi gli uni gli altri” (Galati 5,15). Quando anche nelle comunità cristiane il tasso di litigiosità sale, quando si accumulano e si coltivano avversioni totali e violente diventa urgente imparare a riflettere insieme in assemblea o attorno a un tavolo e qui trovare il coraggio di esporsi, di esprimersi per individuare i problemi e affrontare i conflitti in modo arricchente per tutti. E’ una sfida che si gioca nella tensione tra un modello di comportamento perfetto e gli inevitabili limiti umani: Gesù e le nostre fragilità, le nostre debolezze di umani, i nostri tentativi maldestri di adeguarci al modello. Se io riconosco i miei limiti, le mie debolezze, le mie fragilità accetto i limiti, le debolezze e le fragilità dell’altro/ che mi sta di fronte. Ma anche essere consapevoli di sé è una sfida.
E’ una sfida certamente non facile che ci porta alla terza riflessione.
I diaconi prescelti vengono presentati “ai discepoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.” Ci dice il testo. I discepoli pregano e impongono le mani. Nel loro pregare, nel loro fare riferimento a Dio sta il riconoscimento del proprio limite. Del limite di uomini e donne fragili e imperfetti. Chiedere l’aiuto del Signore, affidarsi alla sua potenza vuol dire essere consapevoli che nonostante tutti i nostri sforzi, il nostro impegno e la nostra buona volontà siamo esposti al rischio del fallimento. Per questo dobbiamo pregare, perché dopo avere fatto tutto quello che ci è umanamente possibile lasciamo che sia Dio a dire l’ultima parola. Ed ecco che alla fine i discepoli “imposero loro le mani”. L’imposizione delle mani ha in questo caso oltre al significato di invocazione allo Spirito Santo e di trasmissione della sua potenza su questi fratelli e di confessione di fede nella potenza dello Spirito, il significato di conservare e rafforzare la comunione con questo nuovo gruppo di fratelli chiamati a servire. È un modo per dire che gli uni e gli altri (chi predica e chi serve) sono accomunati da un unico intento. Amare il Signore, predicare l’amore del Signore amando il prossimo. “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi.” Abbiamo letto questa mattina nel testo di 1^ Giovanni. Se predichiamo soltanto l’amore di Dio continuiamo a non vederlo e a non mostrarlo agli altri. È amando che ascoltiamo l’altro esprimere i propri bisogni anche se in modo difficile da capire. Quante volte fratelli e sorelle nel dialogare con l’altro, pur nella nostra stessa lingua non riusciamo a comprendere il bisogno che quel fratello, quella sorella ci esprime. Quante volte ci fermiamo sul significato delle parole e non ascoltiamo quello che l’altro o l’altra ci sta dicendo veramente! Quante volte posiamo sul nostro prossimo uno sguardo distratto che coglie solo le apparenze, le differenze. Quante volte questo campanellino ( che ci ha fatto risuonare 1 Giovanni) dell’amarci gli uni gli altri non risuona in noi e non ascoltiamo con orecchio amorevole, non guardiamo con sguardo compassionevole e non parliamo il linguaggio dell’amore.
L’amore non è un processo di omologazione. Non ha come oggetto chi è uguale a noi oppure, per essere amato, deve diventarlo. L’amore è riconoscimento che l’altro è l’altro, diverso da me, e in quanto diverso da me deve essere amato.
Questo insegnamento traspare dalla prima comunità cristiana, che è molteplice e multiforme. La comune radice ebraica della quasi totalità dei primi cristiani non deve ingannarci. Ci sono tanti modi diversi di essere ebrei, all’epoca come del resto sempre. E tanti modi diversi di diventare cristiani, da ebrei. Il testo ci dice che della comunità entrarono a far parte anche dei sacerdoti: sacerdoti ebrei, del Tempio, evidentemente. Saranno stati cristiani un po’ diversi degli altri, probabilmente: forse più legati all’identità ebraica, o forse proprio il contrario, perché diventando cristiani perdevano il proprio status, cambiavano più radicalmente degli altri la propria vita. E poi, come abbiamo visto, c’erano tanti, forse tantissimi “ellenisti”, ebrei grecizzati. E, sempre come abbiamo visto, c’erano problemi di genere, non solo legati alle solite discriminazioni contro le donne, ma comunque a una differenza di attitudini, di spirito comunitario, di adesione alla fede. Queste differenze non convivono idillicamente, senza problemi. Creano inevitabili difficoltà di comprensione. Creano frizioni. Creano aree di disagio. Non vengono superate ignorandole. Non vengono superate in un superficiale e sentimentalistico abbraccio generale. Vengono accolte e collocate all’interno della comunità, ciascuna al suo luogo. Vengono riconosciute come differenze, ma non determinano una gerarchia. Non ci sono gli uguali e i più uguali degli altri. Ci sono le diverse vocazioni, le diverse attitudini, i diversi carismi.
Se la prima comunità cristiana può essere un esempio, non è perché fosse perfetta. Nulla di umano lo è. Questa comunità è esemplare perché riconosceva e accettava la propria imperfezione e la trasformava, per quanto possibile, da problema in risorsa.
Possano le nostre preghiere alzarsi al Signore perché con il suo aiuto e con la potenza del suo Spirito questo accada anche per la nostra comunità e per tutta la sua Chiesa nel mondo.
- Amen.