Il SIGNORE ti benedica e ti protegga!
Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio!
Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace! (Numeri 6:24-26)

Chiesa Evangelica Valdese

UNIONE DELLE CHIESE METODISTE E VALDESI

Rimini, Romagna e Pesaro-Urbino

Sermone sul testo di Marco 5, 21-43 – Domenica 30 Agosto 2020 a cura di Jonathan Benatti

 Marco 5, 21-43

In questa sezione del suo Vangelo (Mc 4,35 – 5, 43) l’autore riporta una serie di episodi particolarmente intensi sia dal punto di vista degli eventi sia dal punto di vista emotivo:

  • In Marco 4, 35-41 leggiamo della traversata tempestosa del “mare” e di come Gesù calmi la bufera con la sua parola;

  • In Marco 5, 1-20 leggiamo dell’incontro con un indemoniato particolarmente violento e di come Gesù, sempre con la medesima parola, sciolga le catene di quest’uomo;

  • In Marco 5, 21-24 e 35-43 leggiamo dell’incontro di Gesù con un padre disperato per la malattia della propria figlia;

  • In Marco 5, 24-34 leggiamo infine dell’incontro con una donna malata da molto tempo.

Oltre a concentrare la nostra attenzione sugli ultimi due episodi della sezione narrativa del Vangelo, affronteremo il testo da una prospettiva particolare, focalizzandoci sui protagonisti coinvolti. Inoltre utilizzeremo una poesia di Bonhoeffer1 come ulteriore spunto riflessivo. La densità della parola poetica dischiude infatti significati che, facili da memorizzare, possono esplodere successivamente dentro alla mente di chi ascolta o legge.

Cominciano leggendo la prima strofa della poesia.

 

Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,

piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,

salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.

Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.

 

1. Iairo e la donna emorroissa

 

L’autore del Vangelo ci presenta due persone profondamente diverse, ma al contempo accomunate dall’affrontare un’esperienza profonda di dolore e sofferenza. Da un lato abbiamo Iairo, un “archisynagogos”, cioè un ufficiale preposto alla supervisione degli affari della locale comunità giudaica. Ce lo immaginiamo un uomo piuttosto noto, rispettato, preparato, persino benestante. Scopriamo essere non solo un uomo pubblico, ma anche un uomo di famiglia: padre di (almeno) una figlia, a lui più cara della sua stessa vita. Proprio lei, ora, sta morendo (lottando con una malattia improvvisa). Da un altro lato abbiamo una donna di cui nulla ci viene detto circa il nome, ma che altri avevano ben presente e conoscevano con un nomignolo: zabah, il titolo affibbiato a donne che versano nella sua medesima condizione. Soffre da dodici lunghi anni di un imprecisato flusso di sangue: il libro del Levitico (cfr. Lv. 15, 25-33) parlava esplicitamente di una condizione d’impurità per chi soffrisse di questa malattia. Dunque la donna viveva una vita segnata da un malessere fisico e psicologico: una vita vissuta non solo nella debilitazione fisica e nella debolezza, ma anche una vita emarginata. Un’esistenza passata, almeno negli ultimi dodici anni, a scansare gli altri e ad essere evitata; un’esistenza trascorsa sull’altalena della speranza e della delusione dopo ogni incontro con un nuovo dottore. I suoi beni dilapidati per trovare una cura del proprio fisico e della sua anima di conseguenza sanguinante. L’umiliazione di provare gli ultimi rimedi, più simili a opere di uno stregone che a cure mediche: bere un calice di vino mischiato a croco e allume, assumere un decotto di cipolle persiane e vino; oppure, ancora, prendere un uovo di struzzo, incenerirlo e portarne la cenere dentro a un certo vestito; questi i rimedi che leggiamo essere prescritti dai medici a lei contemporanei (si ritrovano tali presidi medico-chirurgici nel trattato Sabbat del Talmud; sarebbe interessante leggere anche i rimedi presenti in alcuni trattati in lingua greca, non molto distanti da questi tentativi alchemici). In definitiva, due storie diverse, certamente; eppure congiunte dall’esperienza del dolore, improvviso o continuativo che fosse, e dal grido di una fede forse già presente, forse nascente o forse addirittura assente e il cui urlo rappresenta l’atto costitutivo, l’ultimo tentativo prima del baratro. Un grido d’aiuto che si manifesta nell’inginocchiarsi disperato di un padre o nello scivolare silenziosamente tra la folla per raggiungere Gesù.


 

 

2. La folla

 

L’evangelista ci dice che una gran folla si raduna intorno a Gesù e comincia ad accalcarsi. Gesù viene riconosciuto almeno come un uomo speciale, differente. C’è chi pensa possa essere un profeta alla maniera antica, chi pensa che possa essere un liberatore politico, chi un rivoluzionario, chi addirittura un uomo a sua volta posseduto da un demone se non addirittura con qualche rotella fuori posto. La folla comunque lo segue con trepidazione ed eccitazione, con curiosità; la curiosità con cui si seguono le novità. Chissà quante storie di vita tra quella folla: quante esistenze, quanti sogni, speranze, dolori, quanti capelli di colori diversi, occhi, mani, tratti somatici, quante attese, ansie, quanta diversità. Questa folla multiforme è lì per Gesù: vuole vedere, sentire, toccare. Tutti ti cercano dice eloquentemente un discepolo a Gesù qualche settimana prima (cfr. Mc 1,37). La folla vuole una parola, vuole cibo, chiede, pretende, spera; la folla è anche volubile. Ora acclama quest’uomo, un giorno invece griderà, aizzata dai propri leader: Crocifiggilo! (cfr. Mc. 15,13). O ancora, una piccola elite della folla comincerà ben presto a ridere delle parole di Gesù.



3. I discepoli

 

Li troviamo ancora nel processo di elaborare i fatti recenti. Li immaginiamo rimuginanti, forse anche sconvolti. Chi mai costui, che anche il vento e il mare gli ubbidiscono? (Mc 4, 41). E aggiungiamo: Chi è costui che con la propria parola libera un uomo posseduto da una legione di demoni, un uomo che nemmeno pesanti catene potevano trattenere eppure era trattenuto da vincoli invisibili invincibili? Troviamo i discepoli nel mezzo della folla con Gesù. Cercano di tenere il passo, con affanno forse. La folla spinge, esercita pressione. La folla urla, schiamazza; ci sono sudore, vesti tirate, piedi calpestati, polvere che si alza. In mezzo a tutto ciò il loro Maestro si ferma un istante e chiede: chi mi ha toccato le vesti? (vs. 30). Onesta la reazione: “Signore, non vedi? La folla ti stringe! Come fai a chiedere una cosa del genere?”. Immaginiamo i loro pensieri (altri racconti narrati nei Vangeli autorizzano questa ricostruzione, la rendono plausibile). Gesù guarda Iairo, un Iairo a cui hanno appena annunciato la morte della figlia, e dice: “Non temere, abbi fede”. Ecco, qui immaginiamo le facce nuovamente sconcertate dei discepoli; forse anche qualche reazione scomposta come quella di Tommaso qualche tempo dopo: Andiamo anche noi, per morire con lui (cfr. Gv. 11, 16). Alcuni, chiamati per nome dal Maestro lo seguono, ma le loro facce sono perplesse, intontite. Un conto è aver sentito il racconto delle opere di Dio tramandato dai padri, un conto è vedere con i proprio occhi e toccare con mano quando il dito di Dio agisce. Proprio lì, davanti a te.


 

Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,

 lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,

 lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.

 I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.


 

4. Gesù

 

Gesù accoglie. Gesù si fa toccare e tocca ciò che il mondo non vuole toccare: un indemoniato, una bambina morta, una donna considerata impura, dei malati di ogni tipo, degli stranieri. Gesù segue Iairo, cammina con lui. Intanto lo spintonano le folle, urlano nelle sue orecchie, lo strattonano. Gesù si commuove: lo immaginiamo così perché il Vangelo ci racconta della sue viscere che si commuovono di fronte alla tomba di un amico. A Gesù tirano il lembo del mantello, con insistenza. Un parallelo sovviene subito: Isaia vide la gloria di Dio (cfr. Is. 6); per significare la grandiosità della visione da lui vista ci racconta un dettaglio. E i lembi del suo mantello riempivano il tempio. Anche i discepoli hanno visto la gloria di Dio in Gesù:  e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre (Gv. 1, 14). Ecco ciò che ci commuove di fronte a questo dettaglio: la gloria di Dio manifestata da Gesù è la gloria di un lembo di mantello sporcato dalla terra di questo mondo. Gesù però, chiama anche. Chi mi ha toccato?, cioè, “Io voglio darti un volto, non voglio tu rimanga nella folla; esci! Voglio una relazione personale con te”. Non solo. Gesù indirizza la vita verso nuovi percorsi. “Va’ in pace! Sii guarita! Sei salva!”. Gesù parla e la cosa è: Talità kum. Dalla morte alla vita, anticipo della risurrezione di Gesù stesso, lui il primogenito dai morti, lui di cui Paolo dirà qualche anno più tardi: così in Cristo tutti saranno vivificati (cfr. I Co 15,22). Guardi a Gesù in mezzo alla folla, compresso, che sana, guarisce, parla, ascolta, s’incammina, annuncia e compie il regno di Dio e vedi il Dio vicino, presente. Dio ci è vicino nel fango e nel lavoro, tanto che la pelle gli fuma (M. Lutero).

 

Ecco la parola che abbiamo sentito questa mattina. Consola, stimola, giudica, guarisce, apre nuovi spazi e ci porta dal nostro mondo ristretto al vasto mondo di Dio. Portiamo con noi una parola che ci vuole accompagnare: questa domenica, questa settimana, quest’anno, lungo la vita.

 

  • Possiamo essere un Iairo o una donna emorroissa; possiamo essere un discepolo sconcertato e sconvolto, sballottato da eventi non compresi; possiamo essere parte della folla che si accalca, curiosi e in attesa di vedere qualcosa. Dio è lì. Si fa disponibile, tangibile. Non lontano, ma pronto a manifestare una gloria amorevole nella nostra quotidianità. Il Signore è vicino! (Fil. 4, 5).

  • Le nostre vite sono in cammino continuo. In Lui trovano nuova direzione. Vi è una guarigione ancor più profonda offerta da Dio in Gesù Cristo, che va al centro delle nostre esistenze, lì dove risiede il cuore e il significato di essere chi siamo. Questa guarigione parla di tempeste placate dalla sua promessa; parla dello scioglimento di vincoli e catene che non permettono alle nostre vite di essere le creature che Dio ha inteso noi fossimo; parla di una promessa e una qualità di vita che nulla può sconfiggere, anche quando affrontiamo la malattia, la sofferenza, persino la morte; parla di pace anche nel mezzo delle spinte della folla, anche nel mezzo delle promesse vuote che tutti i giorni ascoltiamo, quelle speranze vuote e autoreferenziali offerte dai medici-stregoni del nostro tempo che assicurano la soluzione di problemi personali, collettivi, locali o nazionali che siano. La guarigione e la promessa di Gesù parlano di una vita piena, ricostruita, che Dio ci offre toccandoci individualmente; lì: dove siamo; lì: come siamo.

  • C’è una folla che ride a quella parola. A volte anche noi ci uniamo a quella risata, a volte dimentichiamo. Oggi questa parola ci ricorda che c’è una mano che ci prende delicatamente eppure è potente della potenza di Dio; c’è una bocca che non si stanca di pronunciare i nostri nomi e chiamarci alla vita con tutta la serietà e l’amore di cui il cuore di Dio è capace; c’è un’esistenza nuova, offerta liberamente dal Dio che è relazione e si relaziona e offre tutto ciò che ha per noi: Sé stesso. Fino a impolverarsi con noi, per noi.

 

Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,

sazia il corpo e l’anima del suo pane,

muore in croce per cristiani e pagani

e a questi e a quelli perdona.



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